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mercoledì 3 giugno 2015

Civiltà Rurale Montana

Un modello eco-nomico per il futuro




Con grande piacere pubblichiamo il documento "Bellezza, paesaggio e sviluppo; problematiche e prospettive nel VCO" con il quale l’autore, Antonio Biganzoli -al quale vanno i nostri più sentiti ringraziamenti-, ha partecipato al convegno "Il Paesaggio come bene comune" tenutosi ad Orta il 21 settembre del 2013.
Sul significato del termine eco-nomia rimandiamo al post "Fare soldi e...agire razionalmente"  febbraio 2015.



BELLEZZA

La migliore definizione di bellezza è, a mio avviso, quella che include strettamente il concetto di armonia. Quando nell’oggetto di una visione (un corpo, un volto, un quadro, uno scorcio urbano o un paesaggio, appunto) si accostano armonicamente gli elementi che compongono la sua immagine, allora si può dire che quell’oggetto è BELLO. Ma la bellezza non è solo degli oggetti, è anche, ad esempio, dei suoni (la musica), delle parole (poesia e letteratura) e dei concetti : un teorema matematico o una formula che, in un’espressione di simboli e numeri interpretano e governano un processo o un fenomeno naturale, si possono dire BELLI perché hanno raggiunto un grado ottimale di razionalità, cioè di analisi intelligente.

Da ciò si deduce che la bellezza, oltre che armonia, è ordine; può essere ordine naturale conseguente al susseguirsi di fenomeni che noi possiamo individuare scientificamente e classificare e che hanno plasmato il territorio, ma è anche obbedienza a un’idea, un progetto, in coerenza al quale si rispetta un canone, una regola operativa. Bellezza e razionalità si riscontrano ad esempio in molti oggetti di uso comune e nelle case rurali storiche che erano al contempo funzionali all’attività lavorativa agricola e all’abitazione e che sempre più raramente riusciamo ancora ad ammirare nei nostri paesi e nelle campagne o montagne. Bellezza finalizzata al massimo comfort e gradimento estetico troviamo nelle ville storiche, case di vacanze di nobili o facoltosi borghesi, che caratterizzano molta parte dei nostri laghi, ma bellezza troviamo anche in un paesaggio rurale o in una successione di alpeggi in montagna. Sono concetti che riprenderemo più avanti.

E parliamo quindi ora di:
PAESAGGIO

Il paesaggio non è solo un "bel panorama", è invece tutto il complesso formato: dalla natura che si è, o è stata, variamente modificata e dalle costruzioni o strutture che gli uomini hanno introdotto in un territorio. Osservando un paesaggio non si può fare a meno di cogliervi la storia del territorio stesso. Gli uomini hanno cominciato molto presto a modificare gli ambienti naturali che abitavano o frequentavano. Questa grande attività è cominciata nel Neolitico, quando l’uomo ha smesso di vivere di caccia e raccolta e ha trovato il modo di domesticare piante e animali passando quindi gradualmente da un modo di vita nomade ad uno sedentario o stanziale, lasciando i ripari naturali e cominciando a costruirsi delle abitazioni e poi i centri urbani e le città. Si parla di "rivoluzione neolitica" e non vi è termine più appropriato perché questo è stato per gli uomini, ma anche per il pianeta, un passaggio evolutivo fondamentale; la successiva rivoluzione, altrettanto importante è avvenuta più di 6.000 anni dopo (per l’Europa) ed è la "rivoluzione industriale". Come tutti sappiamo quest’ultima in poco più di 200 anni, rispetto ai 6.000 anni trascorsi dal Neolitico, ha profondamente modificato e quasi ovunque alterato l’aspetto del pianeta.
Tra 6.000 e 5.000 anni fa nelle Alpi già si disboscava, soprattutto con il fuoco, a quote varie anche superiori ai 2.000 m. per ricavarne pascoli e coltivi, lo certificano le indagini palinologiche che evidenziano in epoche così antiche l’inizio del passaggio da foreste o, a quote maggiori, da brughiere di arbusti bassi, a prati. Così il paesaggio montano o collinare che oggi vediamo, con le sue vaste zone a prato, non si può definire del tutto naturale ma è il prodotto di una modificazione che certo si può classificare pesante. Il Medioevo ha costituito un’altra stagione cruciale per l’aspetto del territorio, questo periodo segna l’inizio di uno sfruttamento agricolo decisamente più intensivo rispetto ai secoli e millenni precedenti: nelle pianure soprattutto gli ordini monastici danno avvio a tecniche agrarie innovative e redditizie; nelle zone montagnose, che già prima erano abitate e sfruttate, si intensificano le attività agricole e di pastorizia. Nella nostra provincia del VCO, che possiamo definire tutta montana (compreso il Cusio dove ci troviamo, incomprensibilmente tagliato a metà dal confine di due provincie) i segni di un diffusissimo e direi pervicace sfruttamento agricolo del territorio sono costituiti dai terrazzamenti (alcuni forse molto antichi come sembrerebbero indicare quelli megalitici dell’ Ossola). Fiorisce in questi periodi quel grandioso fenomeno che si appella Civiltà Rurale Montana, pienamente operante fino all’Ottocento, la quale ha prodotto ricchezza materiale e culturale ed è depositaria di una prassi gestionale del territorio ammirevole perché razionalissima. Per inciso: la Civiltà Rurale Montana, che è stata progressivamente cancellata dall’industrializzazione, aspetta ancora una sua piena rivalutazione che faccia giustizia del disdicevole stereotipo della "montagna povera". Fino all’Ottocento, quando cominciano a sorgere le prime industrie nei fondovalle e nelle pianure, le modificazioni del territorio hanno obbedito ai criteri determinati dall’economia agro-pastorale. Il contatto quotidiano con la natura, pur nel suo intensivo sfruttamento, ha indotto il rispetto che alla stessa era dovuto in quanto fonte del sostentamento ed ha costruito un paesaggio in cui nuclei urbani ed alpeggi seguivano fedelmente l’orografia dei luoghi, razionalmente collocando le costruzioni in modo da privilegiare campi e pascoli. Inoltre questo atteggiamento ha fatto si che noi contemporanei ereditassimo un ambiente naturale integro anche dopo la scomparsa di quella civiltà. E ancora: la diversificazione degli ambienti tra coltivi, prati, boschi, pascoli produceva allora la biodiversità che noi stiamo distruggendo mentre la cura del territorio in senso idrogeologico era assicurata da frequenti e capillari interventi ad hoc (terrazzamenti, canalizzazioni, pavimentazioni "filtranti" e non cementificazioni impermeabilizzanti) e così via.
Ma di questa razionalità e buona cura del territorio beneficiavano anche la mente e lo spirito; già abbiamo accennato all’ordine e all’armonia come presupposti di bellezza, e infatti come non leggere nei nuclei urbani antichi: la cura estetica anche nelle case rurali, costruite con materiali naturali (pietra e legno) e spesso affrescate con immagini religiose all’esterno (frequentemente ad opera di eccellenti pittori), l’eleganza delle abitazioni dei più facoltosi, l’accostamento, mai stridente, tra le une e le altre. E come si può da queste constatazioni non pensare che il grado di benessere di allora, quello che noi oggi definiamo "qualità della vita", fosse più alto dell’attuale?

Intendiamoci; qui non si vuole magnificare una improbabile Arcadia, anche allora il lavoro, specie quello dei contadini, e notevolmente quello dei contadini di montagna, era fatica, ma non è forse fatica il lavoro nelle fabbriche, e, peggio ancora, non è devastante per la psiche oltre che per "la pancia" la perdita del lavoro stesso indotta dalle logiche di questo modello di sviluppo? Qui si cerca di trovare dei rimedi ai disastri già operati che non sono solo ambientali, ma culturali e sociali, rivolgendoci anche all’indietro per imparare ancora da quelli che ci hanno consegnato un ambiente integro che noi stiamo irreversibilmente degradando e fornito modelli aderenti alla nostra natura di uomini prima ancora che intelligenti e "tecnologicamente avanzati" costituenti una delle specie che abitano questo pianeta, la conservazione del quale, così come la stessa nostra, grava sulle nostre spalle.


SVILUPPO

Credo sia stata a lungo, e sia ancora, comunemente associata l’idea di sviluppo allo sviluppo tecnologico, al sempre maggior possesso di beni, al consumo di questi anche in eccedenza rispetto ai reali fabbisogni. Inoltre sviluppo e industrializzazione sono strettamente associati nell’idea di "progresso". Vediamo se tutto ciò è vero, cioè se lo sviluppo, o progresso, deve forzatamente corrispondere in un diagramma cartesiano ad una retta sempre ascendente; in proposito possiamo fare limitatamente alle nostre zone delle altre brevi considerazioni storiche.
- A metà del Settecento in Inghilterra, si avvia la "Rivoluzione industriale", si cominciano a costruire telai meccanici per tessitura e altre macchine per la produzione di beni; da noi, un po’ più tardi, Pietro Ceretti, fabbro intrese, nel 1795 avvia una ferriera a Viganella in Valle Antrona e poi a Villadossola, e i fratelli Müller nel 1808 impiantano a Intra la prima filatura meccanica di cotone in Italia. Dopodiché i passi sono stati veloci : subito nascono a Verbania, Gravellona Toce e Ghiffa filature e tessiture di cotone (a metà Ottocento se ne contano otto, più una fabbrica di coperte al rione S.Bernardino). Sempre in quel periodo nascono 4 setifici, poi cappellifici, una vetreria, concerie, industrie meccaniche; a Omegna comincia l’attività la ferriera Cobianchi. Nei primi anni del Novecento l’industrializzazione arriva massicciamente in Ossola, dapprima con la chimica poi con il grande sviluppo dell’energia idroelettrica, l’antica fonderia Pietro Ceretti incrementa fortemente le sue produzioni e dimensioni (diverrà più tardi SISMA). A Verbania l’industria cotoniera e i nastrifici qualificano la zona come importante polo tessile italiano. Nel 1915 a Pieve Vergonte comincia la produzione chimica di cloroderivati, nel 1930 arriva a Pallanza la francese Rhone Poulenc per produrre la fibra tessile rayon acetato, diverrà Rhodiatoce per fusione con la Società Elettrochimica del Toce di Villadossola e poi, nel 1970, Montefibre come emanazione della Montedison. Gozzano si caratterizza industrialmente per la Bemberg (rayon cuproammoniacale) e il Sud del Lago d’Orta per le rubinetterie e galvanotecniche, a Omegna oltre alla storica Cobianchi una serie di importanti aziende si afferma nelle produzioni di articoli casalinghi e di minuterie meccaniche.
E’ evidente come in conseguenza di quello che possiamo definire, anche in rapporto ad altre zone d’Italia, un tumultuoso sviluppo, il paesaggio sia profondamente cambiato, ad esempio in quegli anni l’aspetto di Intra è caratterizzato da una selva di ciminiere. Montagne e zone perilacustri si vanno intanto lentamente ma inesorabilmente spopolando e lentamente viene a mancare il presidio di quelli che erano i territori coltivati e gli alpeggi caricati. A lungo i contadini di montagna divenuti operai si sono sobbarcati giornalieri pendolarismi tra le aziende di fondovalle ed i loro paesi, campi e bestie - un doppio lavoro- poi hanno mollato. Francesco Fedele, un grande archeo-antropologo italiano, nel commentare, nel 1980, l’abbandono dei villaggi di montagna delle valli piemontesi ha detto che esso corrispondeva "alla fine della preistoria nelle Alpi", con ciò certificando la plurimillenaria durata della Civiltà Rurale Montana ed il suo ruolo di ottimale gestione del territorio. Intanto al piano, già a partire dagli anni ’30, il panorama delle industrie si andava modificando: per molte di esse la proprietà passava a grandi gruppi, ciò soprattutto nei comparti tessile e meccanico (la chimica e l’energia idroelettrica già erano appannaggio dei grandi gruppi), ed è noto che i grandi gruppi non hanno in genere molta attenzione per i territori dove sono insediati. Negli anni 1960 la sola Rhodiatoce (poi Montefibre) a Verbania conta 4.000 dipendenti, sempre a Verbania sono ancora presenti l’Unione Manifatture (grande gruppo cotoniero), la Cucirini Cantoni Coats, le Cartiere Prealpine . In Ossola esistono ancora la chimica con i cloro derivati della Rumianca e gli acetati di vinile della Rhodiatoce (poi Vinavil) , la metallurgica SISMA funziona e l’ENEL (subentrato alla Edison) si occupa ovviamente di energia idroelettrica (ma oggi, grazie ai sistemi informatici, con molti meno addetti).

E fin qui siamo nella logica dello sviluppo industriale, rispetto al quale non possiamo ovviamente dolerci, in primo luogo perché è stato inarrestabile e poi perché ha portato un effettivo benessere materiale diffuso, anche se il prezzo pagato è stato alto. Riguardo al paesaggio, oggetto di questo convegno, i danni di 150 anni di industrializzazione sono certamente stati notevoli ma mi sento di proporre due osservazioni:

-Anche senza ricorrere alle centrali idroelettriche progettate dal Portaluppi, molti edifici industriali costruiti nei primi decenni del XX secolo mostrano una notevole cura estetica in stile architettonico, fregi e pitture degli intonaci, ciò vale in genere, a mio avviso, per tutta l’Italia.

-Sempre ricordando Intra, fino al 1960 circa la presenza di molte fabbriche all’interno della cinta urbana non aveva pregiudicato il paesaggio urbano storico costituito da palazzotti barocchi o ottocenteschi, vie acciottolate con le carrarecce in lastre di pietra al centro, spazi a verde inclusi tra le case. Ovviamente non solo Intra aveva questo aspetto.

Poi è cominciato il disastro.
E’ impressionante come tutti i nodi relativi ad ambiente e sviluppo siano venuti al pettine praticamente assieme.

-Tra il 1960 e il 1970 il Club di Roma e il Massachusetts Institute of Technology pubblicano
"I limiti dello sviluppo", forte segnale d’allarme per il pianeta, ancor oggi praticamente ignorato.

-Nel 1970 l’industria tessile europea comincia a scricchiolare, si verificano crisi e chiusure di aziende, la produzione man mano si trasferisce nell’estremo Oriente. Poi è la chimica che trasferisce le sue produzioni sempre nel Far East, anche l’industria meccanica subisce forti ridimensionamenti. Nel 1983 a Pallanza chiude la Montefibre, di colpo vengono meno 4.000 posti di lavoro. Io stimo che tra il 1980 e il 1990 si siano persi in tutta la provincia del VCO 10.000 posti di lavoro, oggi sono molti di più. E’ una falcidie, di tutte le grandi aziende prima elencate (che comunque non erano tutte) nessuna è sopravvissuta (salvo pochissime eccezioni e pochissimi addetti), il tessuto industriale del VCO è praticamente scomparso. Nel 2013 l’emorragia di posti lavoro credo non si stia ancora fermando, certamente di nuovi non ne sono stati creati, tantomeno nell’industria. Tra le nazioni europee l’Italia, e più che mai il VCO, ha pagato il prezzo più alto alla cosiddetta "era postindustriale"

-L’aspetto assurdo di questa crisi è che l’edilizia, una brutta e invasiva edilizia, si è avviata in modo massiccio proprio in corrispondenza all’inizio della devastante crisi industriale. Sembra che i capitali degli investitori si siano spostati tutti nel comparto edile, questa si definisce speculazione. Nelle città e cittadine sorgono palazzoni eterogenei e kitsch, nella maggior parte dei paesi si cementifica inutilmente il territorio, ville storiche e nuclei rurali antichi sono definitivamente abbandonati e lasciati alla rovina, la loro bellezza cancellata. In questo convegno si parla giustamente di abuso edilizio, ma è l’edilizia legale, quella autorizzata che ha fatto danni in maggiore misura.

- Di fatto un piccolo comune oltre a rovinare il proprio paese può arrogarsi il diritto di alterare un intero ambito paesaggistico. La tutela del paesaggio praticamente non esiste. Gli amministratori comunali hanno mano libera sulle decisioni che riguardano il territorio, l’evidenza dimostra l’attenzione che questi, un po’ ovunque e con rare eccezioni hanno dedicato al tema.

-Una recente esperienza mi ha reso edotto del fatto che spesso gli Enti di tutela non conoscono gli ambienti che dovrebbero tutelare e delegano ai comuni le valutazioni. Con tutto il rispetto dovuto agli amministratori comunali, io non credo che ciò sia giusto, perché troppi amministratori mostrano di non conoscere il valore del loro territorio.

-Il VCO vede una situazione in cui il cemento avanza in tutti gli ambiti mentre soprattutto gli ambienti ex-agro-pastorali (la mezza montagna e le zone collinari) si degradano a gerbido cancellando prati e sentieri. Si ritorna, in peggio, a 6.000 anni fa prima della nostra "rivoluzione neolitica".


PROSPETTIVE

La violenta deindustrializzazione, le distruzioni del patrimonio storico-ambientale, l’impoverimento materiale, culturale ed etico che si sono verificati bocciano decisamente questo modello di sviluppo. Esso va urgentemente cambiato, le vie seguite a suo tempo non sono più percorribili. Nei primi anni 1970 già la situazione a livello planetario e le avvisaglie sul piano locale dovevano mettere in allarme e stimolare soluzioni alternative, viceversa la deriva è ancora forte. Solo oggi, quando ormai tutti coloro che posseggano un minimo di intelligenza e senso etico hanno preso coscienza, si cominciano a cogliere da parte degli organismi amministrativi, che finora hanno sempre rincorso un’impossibile re-industrializzazione ed elefantiache idee riguardo ad infrastrutture, dei timidi segnali di apertura verso strategie che privilegino beni ambientali e culturali e che favoriscano la ripresa dell’agricoltura, anche quella di montagna.
Mentre si parla di ripresa dell’edilizia in crisi, si ha un’idea di quanto lavoro per operatori dell’edilizia e artigiani si potrebbe creare con il recupero (beninteso il più possibile filologico) dei nuclei storici? E mentre acquistiamo e mangiamo frutta congelata nei supermercati abbiamo idea di quanto sarebbe salutare averla da un’agricoltura sull’uscio di casa?
Occorrono quindi vere politiche che favoriscano la rinascita del territorio, e non solo per incrementare l’industria turistica ma per fornire a tutti lavoro e una migliore qualità della vita.
 
Il tempo concessomi è terminato, mi fermo qui, da qui deve cominciare l’impegno di tutti per trovare soluzioni.
 
CONVEGNO "IL PAESAGGIO COME BENE COMUNE"
Antonio Biganzoli                                    Orta 21 Sett. 2013
 






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